Le tozze cariatidi di St. Pancras

Euston Road – Tube: Euston

A cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo la Grecia era un dominio dell’Impero Ottomano da ormai più di tre secoli. Erano gli anni in cui Napoleone Bonaparte imperversava nell’intera Europa, in particolare nel Mediterraneo, e gli inglesi, preoccupati da questa espansione che appariva inarrestabile, cercavano di puntellare le proprie basi in Oriente intensificando i rapporti con Costantinopoli.

Thomas Bruce, settimo conte di Elgin, ricopriva in quegli anni l’incarico di ambasciatore britannico presso il Sultano. Nobile scozzese, aveva 35 anni e soffriva di una malattia (probabilmente una forma di sifilide) che proprio durante il soggiorno a Costantinopoli lo sfigurò causando la perdita del naso, tanto che fu costretto a portare una maschera in pubblico.

Era iniziato in Grecia da alcuni anni un vero e proprio saccheggio di opere d’arte su commissione dei grandi musei europei: il British Museum, il Musée Napoléon (da cui poi sarebbe sorto il Louvre), la gliptoteca di Monaco di Baviera e i Musei Vaticani. Non era per nulla difficile, questo scellerato shopping archeologico: spesso era sufficiente pagare le cifre chieste dai sorveglianti turchi ed il gioco era fatto. Nel 1800 Elgin ottenne dal Sultano, riconoscente verso gli inglesi per aver sventato la minaccia di Napoleone, il permesso di accedere all’Acropoli di Atene, allora fortezza ottomana, per far eseguire rilievi, disegni e calchi. Ma già l’anno successivo arrivò il via libera per uno dei più gravi scempi di sempre al patrimonio artistico dell’umanità: con il benestare delle autorità Elgin ordinò la rimozione e l’invio in patria di quasi metà delle sculture del Partenone e di altri elementi architettonici dei Propilei e dell’Eretteo. I cosiddetti Marmi di Elgin furono collocati temporaneamente nella dimora scozzese dell’ambasciatore e vennero acquistati dallo Stato per 35.000 sterline soltanto nel 1816, dopo anni di aspre polemiche tra chi era favorevole e chi, già allora, condannava il vergognoso sfregio perpetrato ai danni della Grecia. I Marmi di Elgin sono ancora oggi esposti nella Duveen Gallery del British Museum e tra essi c’è una delle cariatidi della loggia dell’Eretteo, l’unica che Elgin riuscì a rimuovere.

Proprio la cariatide arrivata in Inghilterra per nave nel 1804 è il collegamento con l’angolo di Londra che oggi vi voglio svelare: St. Pancras New Church.

La chiesa sorge lungo Euston Road, una strada molto trafficata che chiude a nord la zona di Bloomsbury, e fu costruita tra il 1819 e il 1822 su disegni degli architetti William e Henry William Inwood, padre e figlio, in stile neoclassico con chiari rimandi alla Grecia antica. Il portico presenta eleganti colonne ioniche e la chiesa si ispira esplicitamente in molte parti all’Eretteo e alla Torre dei Venti dell’agorà ateniese. Il costo totale della costruzione fu di 76.679 sterline, il più alto dai tempi della ricostruzione di St. Paul’s Cathedral.

La caratteristica più singolare dell’edificio è la presenza di due logge simmetriche che fiancheggiano l’abside, costruite a imitazione dell’Eretteo e quindi dotate di cariatidi che sostengono la trabeazione, scolpite da John Charles Felix Rossi, membro della Royal Academy. Nato a Nottingham ma figlio di un emigrato senese, Rossi era uno scultore che utilizzava spesso materiali come la terracotta e una pietra artificiale creata pochi decenni prima da Eleanor Coade (la cosiddetta Coade stone di cui, ad esempio, è fatto il South Bank Lion).

Le cariatidi di St. Pancras, fatte di terracotta, sono poste sopra i due ingressi alla cripta che si estende per tutta la lunghezza della chiesa: era stata pensata per accogliere 2.000 salme ma la pratica di seppellire i morti nelle chiese fu interrotta nel 1854, quando a St. Pancras avevano trovato posto circa 550 anime. La cripta fu utilizzata come riparo durante i bombardamenti tedeschi della seconda guerra mondiale e dal 2002 ospita una galleria d’arte.

A differenza di quelle ateniesi, le cariatidi scolpite da Rossi vegliano su un luogo di sepoltura e tengono in mano delle torce e delle brocche vuote.

Se confrontate con le cariatidi antiche, però, le statue di St. Pancras rivelano qualcosa di singolare: a chi le osserva appaiono decisamente più tozze, non hanno di certo la classica perfezione degli originali. E un motivo esiste! Una settimana prima della consacrazione della chiesa, infatti, era quasi tutto pronto ad eccezione delle cariatidi che, già finite, dovevano soltanto giungere dallo studio dello scultore. Arrivarono a bordo di quattro carri trainati da altrettanti cavalli e furono necessari otto uomini per sollevare e mettere in posizione sotto il portico ognuna di esse. Con orrore, però, Rossi si accorse che nonostante i tentativi nessuna delle cariatidi entrava nello spazio che avrebbe dovuto accoglierla: erano tutte più alte del dovuto di almeno trenta centimetri!

A mali estremi, estremi rimedi: lo scultore ordinò di caricare nuovamente le statue sui carri, le fece riportare nel suo studio e lavorò ininterrottamente per due giorni e due notti, eliminando da ognuna una sezione di trenta centimetri all’altezza del diaframma. Spiegò l’errore madornale dicendo che non aveva letto correttamente la calligrafia del suo assistente fiammingo a cui aveva dato l’incarico di prendere le misure. Il giorno dell’inaugurazione le statue furono camuffate con una grande quantità di fiori ma, nonostante questo disperato tentativo, le giunture erano ben evidenti agli occhi dei presenti. Magari un po’ tarchiate ma pur sempre solenni, due secoli dopo continuano a sorvegliare silenziose l’ingresso della cripta.

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