Condividere i fantasmi


Questa è la settima ed ultima parte di un racconto diviso in sette capitoli, uscito a puntate nel 1928 sulle pagine dell’Evening Times. L’ho tradotto facendo del mio meglio e ho anche pensato ad un’immagine per illustrarlo. In questo post ho raccontato le bizzarre circostanze in cui lo rinvenni in un mercatino nel 2015. Buona lettura!

Wapping, 25 Giugno 1990

Cara signora Watson,

mi scuserà se mi rivolgo a Lei col cognome da nubile, ma vede, quando si ha la mia età (ho la bellezza di ottantotto primavere), certe abitudini e, soprattutto, certi convincimenti della gioventù sono duri a morire. Lei non mi conosce, lo so; ma io ho avuto tuttavia la ventura di conoscere, intorno ai miei vent’anni, la moglie del rispettabile John Henry Watson, il fratello di Suo padre. Le circostanze in cui ciò avvenne non credo Le siano note; mi permetto di offrirLe in merito un breve riassunto, rispetto al quale può pensare ciò che vuole.

[…]

Se, a questo punto, non ha accartocciato questa missiva, attribuendola al delirio senile di una vecchia demente, si starà probabilmente chiedendo perché Le sto scrivendo. È presto detto: vedo ormai avvicinarsi la fine, e c’è una colpa che si aggiunge ai vari fantasmi che mi tormentano in questo ferale luogo in cui, infine, ho accettato di farmi rinchiudere: non aver condiviso con Sua zia tutti quei fantasmi.

Quando presi in mano quel volume, seppi fin da subito che la lettera vergata al cimitero di Streatham non era la sola cosa che il dottor Watson aveva scritto di suo pugno all’interno del tomo del Testut che conteneva quella particolareggiata descrizione dell’apparato locomotore umano; da qualche parte tra le sue pagine, dopo gli eventi consumatisi poco lontano da dove la sorte mi ha portato a vivere il crepuscolo della mia vita, aveva aggiunto queste poche parole:

“La storia della medicina non procede a salti, e quella della medicina legale non fa eccezione. Anche a Gloucester Road ci si ispira, o ci si ispirerà, a degli illustri predecessori”.

Non dissi alla signora Watson di averle lette: me ne pento. Ma ancor di più, mi pento di averle taciuto della gita che io e sir Arthur, a sua insaputa, compimmo per indagarle.

Raggiungemmo Gloucester con la sua carrozza. A passo lento, sfilai di fronte ai palazzi, e sentii il mio cuore rallentare, così come il mio respiro, mentre mi avvicinavo al numero 79. Chiesi a sir Arthur di controllare che nessuno stesse guardando nella nostra direzione, quindi salii lentamente le scale e toccai la porta.

Il tempo ebbe uno scossone in avanti e vidi un uomo (un uomo avvenente, devo confessare) uscire di prigione; lo vidi poi lì, in quella casa di cui stavo toccando l’uscio, durante una grande guerra, colpire alla testa un uomo e successivamente immergerlo in una grossa tanica d’acciaio; lo vidi altrove, uccidere ancora, ed ancora rinchiudere quei poveri corpi morti in quattro taniche identiche: poi, dopo averle vorticosamente roteate, tutt’e cinque quelle taniche (le vedo ancora oggi!) si allinearono davanti ai miei occhi. La visione si offuscò un attimo, ma tornò chiara quando la voce del dottor Watson (ma poi, come facevo a sapere che era la sua? Lo ignoro; eppure, ne ero certa) sussurrò al mio orecchio: “Ah, vedete, anche il vecchio Haigh si servirà del caro accadueesseoquattro! Imparerà bene!”. Ed allora i bidoni si aprirono senza che nessuno li avesse toccati e dentro… i cadaveri erano svaniti.

Crollai sulle scale, e svenni, credo, per qualche istante. Quando riaprii gli occhi, sir Arthur era nervosamente chinato su di me, e, immediatamente, mi chiese se doveva far avvertire la signora Watson. “Assolutamente no”, risposi, con foga forse anche troppo eccessiva.

Sapevo che, a dispetto di tutto, non mi amava, benché forse avesse imparato, in qualche modo, a rispettarmi: ma non mi sembrava comunque umano farle sapere che non avrebbe mai più rivisto neppure il corpo, neppure un arto, neppure un brandello del marito.

È umano, invece, farlo sapere alla nipote? Non saprei. Certo è egoista, scegliere qualcuno che è, sostanzialmente, un estraneo rispetto ai fatti, e che per altro li vive, per così dire, in differita (perfino l’infame condotta del signor John George Haigh ed il suo tremendo utilizzo dell’acido solforico appartengono al passato, per lei), per sgravarsi la coscienza; ma, chissà, forse questa non è la lettera di una veggente (sì, un tempo mi chiamarono così) prossima alla morte, ma solo il delirio senile di una vecchia demente. A Lei la scelta.

La saluto caramente

Theot


Con il settimo e ultimo capitolo si conclude la pubblicazione del racconto che scovai per caso a Camden Passage ormai 8 anni fa. Giunti a questo punto, se avete seguito la vicenda, credo di dovervi delle spiegazioni. Ma non lo farò io. A chiarire quanto è accaduto sarà il misterioso autore del racconto, lo stesso autore che nel 1928 lo consegnò alle pagine dell’Evening Times. Qualche giorno di pazienza e saprete tutto.


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