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Tag: William S. Burroughs

Le due vite di Robert Wyatt

Maida Vale – Tube: Maida Vale


“Una vacanza? Cos’è una vacanza?”

Per uno stacanovista come lui “vacanza” era un termine inconcepibile. D’altra parte la proposta di Alfie era allettante: trascorrere insieme qualche settimana a Venezia, dove lei avrebbe lavorato sul set di un film e lui avrebbe potuto impiegare il tempo facendo nuovi progetti. Inoltre stavano insieme da poco tempo e non erano intenzionati a rimanere lontani.

Lasciarono dunque Londra subito dopo il Natale del 1972 e raggiunsero l’amica Julie, che alloggiava alla Casa del Leone, sull’isola della Giudecca.

Julie era Julie Christie, la protagonista femminile del film le cui riprese stavano per iniziare: “Don’t Look Now”. L’anno scorso ho dedicato un lungo post ai luoghi veneziani in cui fu girato.

Alfie, Alfreda Benge, era stata assunta dal regista Nicolas Roeg con il ruolo di seconda assistente al montaggio.

Il suo compagno, lo stacanovista, era invece Robert Wyatt. Professione musicista.

Non basterebbe un libro per raccontare la vita, sarebbe più giusto scrivere le vite, di quest’uomo che a 28 anni aveva già un passato molto intenso.

Figlio di uno psicologo e di una giornalista della BBC, socialisti illuminati, era nato a Bristol all’inizio del 1945. Il padre, grande appassionato di jazz, lo aveva formato fin da piccolo all’ascolto e gli aveva insegnato a suonare il pianoforte.

La madre, invece, aveva l’abitudine di riunire periodicamente nel salotto di casa i suoi amici intellettuali. Il piccolo Robert era lì ed assorbiva tutti questi stimoli.

Quando era ancora un ragazzino la famiglia si traferì a Lydden, un piccolo villaggio a dieci miglia da Canterbury, e acquistò Wellington House, una grande dimora georgiana in condizioni piuttosto precarie.

Un’imbiancata sommaria fu più che sufficiente per andarci ad abitare e, per far quadrare i conti, i genitori di Robert decisero di affittare alcune stanze a turisti e persone di passaggio.

Fu così che avvennero gli incontri più straordinari.

Prima di tutto George Neidorf, squattrinato batterista jazz americano, che in cambio dell’ospitalità diede le prime lezioni dello strumento al giovane Robert.

E poi Daevid Allen, 22enne bohemien che veniva dall’Australia dopo aver fatto tappa a Parigi.

Viaggiava con un guardaroba stravagante, una buona scorta di marijuana e duecento vinili di musica jazz. Robert li mise a confronto con quelli della sua collezione: coincidevano per buona parte.

Nonostante fosse più grande di 7 anni, Allen si trovò subito in sintonia con quel ragazzo ricco di talento e lo incoraggiò ad intraprendere la carriera di musicista.

Wellington House era infatti già da qualche tempo il ritrovo di quella che sarebbe poi diventata famosa come “scena di Canterbury”. Oltre a Wyatt c’erano i fratelli Hugh e Brian Hopper, i cugini Richard e Dave Sinclair, Kevin Ayers, Mike Ratledge. Tutti più o meno compagni di scuola alla Simon Langton Grammar School for Boys. Tutti più o meno componenti della band seminale del Canterbury sound, i Wilde Flowers.

Dalle ceneri del gruppo nacquero nella seconda metà degli anni ‘60 i Caravan (ricordate un mio vecchio post dedicato a loro?) e i Soft Machine.

La Macchina Molle (i suoi membri presero in prestito il nome dal romanzo di William S. Burroughs) rappresentava il filone più sperimentale della scuola di Canterbury: c’era il rock, la psichedelia, il dadaismo assorbito dalla frequentazione di Daevid Allen (che a breve avrebbe fondato i Gong), il jazz, l’avanguardia.

Nei Soft Machine Robert Wyatt era compositore, batterista e cantante. Accanto a lui il basso di Hugh Hopper, l’organo di Mike Ratledge e il sassofono di Elton Dean.

Il punto più alto lo raggiunsero con “Third”, nel 1970. Poi un altro album e le divergenze che portarono Wyatt ad abbandonare i compagni e a fondare i Matching Mole, omofonia di “machine molle”. Era il palese tentativo di continuare il percorso creativo del gruppo precedente.

Uscirono due dischi in cui Wyatt, leader indiscusso del progetto, premette l’acceleratore dell’improvvisazione e della sperimentazione, cominciando una ricerca vocale che sarebbe durata per tutta la carriera successiva: i suoi falsetti, i suoi bisbigli, le sue armonie sbilenche sarebbero diventati con il tempo un marchio di fabbrica.

Quando alla fine del 1972 Robert accettò la proposta di Alfie di passare qualche tempo a Venezia, i Matching Mole si erano sciolti da qualche settimana.

I silenzi della laguna in inverno diventavano dunque l’ambiente ideale per ripensare a ciò che era stato e soprattutto per fare progetti per il nuovo anno.

In un negozio di musica locale Alfie comprò un regalo per il compagno: una Gem Riviera, tastiera economica prodotta in Italia, di piccole dimensioni. Gli sarebbe stata utile per comporre nuova musica mentre lei era impegnata sul set del film di Roeg.

“Aveva un particolare vibrato, che luccicava come l’acqua che ci circondava”, avrebbe detto anni dopo Wyatt.

Le riprese del film terminarono dopo qualche settimana e arrivò il giorno del rientro a Londra. Robert cominciò a lavorare per riformare i Matching Mole e registrare il materiale scritto a Venezia.

Il primo giorno di Giugno del 1973, un venerdì, era in programma la festa per i 40 anni di Gilli Smyth, compagna di Daevid Allen e componente dei Gong.

Agli invitati fu dato appuntamento a Maida Vale, a casa di un’amica. Nonostante l’appellativo, Lady June non apparteneva alla nobiltà ma era pittrice, poetessa e ogni tanto cantante, amica di tutti i protagonisti della scena di Canterbury.

Si era trasferita in un appartamento al quarto piano di Vale Court, un grande condomino vittoriano, alla fine degli anni ’60 e da allora aveva sempre ospitato per periodi più o meno lunghi molti amici musicisti. Nello stesso stabile viveva in quel periodo David Bowie, ospite dell’attrice Diana Rigg.

Daevid Allen definiva l’appartamento di Lady June “la miglior sala da fumo di tutta Londra” e l’appellativo di “Lady” June è legato al suo ruolo di generosa e illuminata landlady.

Quella sera, alla festa per Gilli Smyth, c’erano praticamente tutti.

Mentre salivano in ascensore, Robert disse ad Alfie “Sono felice.”

Lei ebbe immediatamente il presagio che qualcosa di tragico era dietro l’angolo.

La serata trascorse vivace, molto simile a quelle che si svolgevano a casa Wyatt quando Robert era ragazzo. Rispetto ad allora, però, aveva preso il vizio dell’alcool. Un’abitudine che era iniziata anni prima, durante il tour americano dei Soft Machine come supporto a Jimi Hendrix. Poi era arrivata la conoscenza con Keith Moon e la pratica di alternare con lui shots di tequila e Southern Comfort.

Anche quella sera, dunque, Robert ci andò giù pesante.

Ad un certo punto pensò di fare uno scherzo: si chiuse in bagno, intenzionato ad uscire dalla finestra, salire sul tetto e rientrare in casa stupendo tutti, suonando il campanello d’ingresso.

Le cose andarono nel peggiore dei modi. Robert salì sul davanzale e perse subito l’equilibrio, facendo un volo di quattro piani.

Fu portato immediatamente allo Stoke Mandeville Hospital, dove gli salvarono la vita ma emisero una sentenza inappellabile: la frattura della dodicesima vertebra lo avrebbe costretto per sempre su una sedia a rotelle.

“Doveva essere parecchio ubriaco” confidò un medico ad Alfie. “Questa cosa lo ha salvato: se fosse stato appena più sobrio, avrebbe irrigidito il corpo per la paura durante la caduta e si sarebbe fracassato”.

Robert trascorse otto mesi immobile, sul letto dell’ospedale.

Dopo l’inevitabile sconforto iniziale, però, con il passare dei giorni iniziò la sua seconda vita.

Non avrebbe più potuto suonare la batteria come prima ma avrebbe continuato ad essere un musicista. Sfruttò i mesi di immobilità in ospedale adattando alla nuova condizione i pezzi che aveva scritto a Venezia e scrisse buona parte dei testi.

Nel frattempo i suoi amici non rimasero con le mani in mano. Il 4 Novembre i Pink Floyd, i Soft Machine e John Peel organizzarono un concerto al Rainbow Theatre che raccolse 10.000 sterline a suo favore, Julie Christie offrì alla coppia un’abitazione, la modella Jean Shrimpton un’automobile.

Qualche tempo dopo essere stato dimesso dall’ospedale, Robert Wyatt riunì alcuni amici e tornò in sala d’incisione: Mike Oldfield, Hugh Hopper, Richard Sinclair, Mongezi Feza, Ivor Cutler, Gary Windo…  

Wyatt si occupò delle tastiere (suonò il pianoforte e l’organo regalatogli da Alfie, su cui aveva composto a Venezia), delle percussioni e della voce.

L’album, intitolato “Rock Bottom” uscì il 26 Luglio del 1974, prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd. Lo stesso giorno Robert e Alfie si sposarono.

E’ uno dei dischi più magici che io abbia mai ascoltato.

E’ difficile descrivere le atmosfere delle sei tracce dell’album. Il legame con il mare è evidente, l’effetto è quello di un flusso lento, di un’immersione in fondali sempre più profondi. La luce che vicino alla superficie filtrava ancora, comincia pian piano ad affievolirsi progressivamente, fino a sparire. Una volta raggiunto il fondo ci troviamo immersi in qualcosa di inedito, in suoni spiazzanti ma che allo stesso tempo familiari.

E’ Wyatt che fa pace con la sua vita precedente ma allo stesso tempo inaugura una nuova stagione nella storia della musica, qualcosa che è totalmente nuovo. Riemerge un uomo (e un musicista) completamente diverso dal “bipede batterista”, come lui definisce oggi il protagonista della prima parte della sua vita.

Robert Wyatt non ha problemi a parlare dell’incidente di Vale Court ma non ama affrontare i ricordi di quello che era prima di quella notte di Giugno del 1973. Di tutto ciò che ha fatto dopo la paralisi è invece felice, soddisfatto: i suoi album da solista, le innumerevoli collaborazioni, l’attivismo politico a favore degli ultimi.

Recentemente l’espressione “Wyatting” è comparsa su alcuni blog e riviste musicali per descrivere l’usanza di riprodurre brani sperimentali nel jukebox di un pub per infastidire gli avventori. Ascoltate “Dondestan”, album di Wyatt del 1991, per farvi un’idea di cosa si intende.

Intervistato a tale proposito, lui si è detto onorato di essere diventato un verbo. “Ma non lo farei mai in un pub! Non mi piace sconcertare la gente. Anche se spesso, quando cerco di essere normale, ci riesco senza volerlo.”

Oggi Robert Wyatt ha 75 anni e vive a Louth, una sonnolenta cittadina del Lincolnshire. Possiede ancora il piccolo organo giocattolo che gli regalò Alfie.

Lei è ancora accanto a lui, i due sono inseparabili come un tempo.

Julie Christie, per descrivere quei giorni passati insieme a loro alla Giudecca, dice che sembravano “un’unica persona con tre gambe”. Camminavano per le calli della città, sedevano su una panchina in fondo al giardino della casa, stando zitti per ore ad osservare la laguna o parlando in continuazione.

“Rock Bottom”, l’album che nacque in quei giorni veneziani non è un disco immediato, è difficile e doloroso. Bisogna immergersi nelle sue atmosfere abbandonandosi completamente, molli come la Macchina di Burroughs, forse rilassati come il corpo di Wyatt quando cadde dalla finestra di Vale Court in quella notte di Giugno.


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Author The LondoNerDPosted on 10 May 20202 August 2020Categories Musica, PersonaggiTags album, alcool, Alfie, Alfreda Benge, attivismo, Australia, avanguardia, BBC, bohemien, Brian Hopper, Bristol, cantante, Canterbury, Caravan, Casa del Leone, dadaismo, Daevid Allen, Dave Sinclair, David Bowie, Diana Rigg, Dondestan, Elton Dean, film, Gary Windo, Gem Riviera, George Neidorf, Gilli Smyth, giornalista, Giudecca, gong, Hugh Hopper, Ivor Cutler, jazz, Jean Shrimpton, Jimi Hendrix, John Peel, jukebox, Julie Christie, Keith Moon, Kevin Ayers, Lady June, laguna, lincolnshire, Louth, Lydden, Maida Vale, mare, marijuana, Matching Mole, Mike Oldfield, Mike Ratledge, Mongezi Feza, montaggio, Natale, Nicolas Roeg, Parigi, Pink Floyd, pittrice, poetessa, psicologo, Rainbow Theatre, Richard Sinclair, Robert Wyatt, Rock Bottom, scena di Canterbury, Simon Langton Grammar School for Boys, Soft Machine, Southern Comfort, stacanovista, Stoke Mandeville Hospital, tastiera, tequila, Third, ubriaco, Vale Court, Venezia, vibrato, vinili, Wellington House, Wilde Flowers, William S. Burroughs, Wyatting1 Comment on Le due vite di Robert Wyatt

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