La stanza di Rodinsky

19 Princelet Street – Tube: Aldgate East


Strana storia quella di David Rodinsky e della sua stanza. Proviamo a raccontarla dall’inizio, anche se in realtà per farlo dobbiamo partire da una fine. Siamo a Londra nel quartiere di Spitalfields, a un tiro di schioppo da quello che fu il teatro delle imprese della buonanima di Jack lo Squartatore tanto per intenderci, e un bel giorno del 1969 David Rodinsky, enigmatico personaggio dell’East End ebraico, studioso di lingue e dialetti antichi (pare ne conoscesse una quindicina), scompare senza lasciare alcuna traccia se non la stanza dove viveva al 19 di Princelet Street, proprio sopra la piccola sinagoga ormai in disuso.

Una stanza traboccante di appunti misteriosi, mappe, giornali, lettere, dizionari e una vecchia guida stradale di Londra con degli itinerari tracciati.

Passano undici anni e nel 1980, in seguito a dei lavori di ristrutturazione, la stanza viene aperta per la prima volta e l’impressione è quella che il suo occupante l’abbia appena lasciata: c’è una tazza con delle foglie secche di tè sul fondo, un tegamino con i resti rappresi di un porridge, il letto sfatto, gli abiti nell’armadio spalancato. Ogni cosa è rimasta esattamente come era in quel fatidico giorno del 1969, solo uno spesso strato di polvere è calato come neve a congelare la scena. Aleggia un’atmosfera irreale, ma ancora palpitante di vita.
Da quel momento la stanza di Rodinsky diviene un’autentica leggenda metropolitana, meta di studenti e studiosi intenzionati a carpirne e decifrarne il segreto. Le leggende generano leggende e allora ecco i primi scopritori giurare di avere visto l’impronta di una testa sul cuscino del letto; si parla anche di un gatto ormai mummificato e la stessa figura di Rodinsky assume gli aspetti più diversi. C’è chi lo ricorda come un vecchio con una lunga barba, qualcun altro parla di un giovane minorato mentale che girovagava per il quartiere. Era ricco ed era povero, era alto ed era basso, era tutto ed era niente. Nessuno è in grado di dire con esattezza cosa facesse e come vivesse. Quell’uomo era e rimane un mistero anche per la giovane artista e ricercatrice – Rachel Lichtenstein – che per anni ha catalogato gli oggetti della stanza, raccolto informazioni, intervistato gli anziani del quartiere, ripercorso gli itinerari londinesi dello scomparso e infine su quella che è diventata quasi un’ossessione, insieme a Iain Sinclair, ha scritto un libro, La stanza di Rodinsky, pubblicato qualche anno fa anche in Italia.

Poco importa se Rodinsky sia morto per cause naturali o si sia suicidato, o se invece sia ancora vivo, e magari appostato a un angolo dell’East End si diverta un mondo alle spalle di chi si danna l’anima per capire il segreto della sua scomparsa. Comunque sia non ha lasciato né eredi né testimoni, il senso della sua vita è racchiuso in quella stanza; attraverso quegli oggetti è forse possibile capire cosa pensava, in che cosa credeva, chi ha amato, chi ha odiato. Al di là della sua stessa volontà, ma chi può dirlo, è assurto a simbolo di un mondo ormai scomparso. Lui si è limitato a lasciarci in eredità le sue cose nella stanza dove abitava, a disposizione di tutti. Chi vuole può andare ancora oggi a vederla ricostruita al Museo di Londra e farsi l’idea che vuole su Rodinsky, su se stesso, sul significato delle cose vive e delle cose morte. Partendo dagli oggetti, dalle carte e dall’atmosfera ritrovati in quella stanza abbandonata possiamo cercare di ricostruire la vita di un uomo, di una comunità, di una Londra che non esiste più.
Ancora oggi, dopo anni di studi e ricerche, non ci sono certezze sulla vera identità dell’inquilino di quella vecchia stanza. Quello che sappiamo è che tutta questa storia è la prova del modo in cui le case e le cose divengono estensione degli individui e vivono anche dopo di loro, fino a diventare una sorta di eredità esistenziale a disposizione di chi, anche quando ormai di noi si sarà perso il ricordo, abbia voglia di starci vicino, magari in silenzio condividendo gli spazi e gli oggetti che sono stati nostri  
Strana storia quella di David Rodinsky e della sua stanza. Se avevate delle certezze contribuirà a spazzarle via; se avevate dei dubbi servirà a farli aumentare. Una storia che sembra a volte sul punto di svelare il suo segreto e subito dopo svanisce tra le mani e torna a essere solo un po’ di polvere in una stanza.

Rachel Lichtenstein & Iain Sinclair – Rodinsky’s Room – 1999


Silvano Calzini è nato nel 1956 a Milano dove lavora nel mondo editoriale. Ha pubblicato Figurine. 100 grandi scrittori raccontati come assi del pallone (Ink, 2017), Il signor K e la donna di marmo (Bolis Edizioni, 2018) e la serie di e-book Nani da leggere. Romanzi in 10 parole(Simonelli Editore, 2011-2014).


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2 thoughts on “La stanza di Rodinsky”

  1. Che storia intrigante ( e inquietante!). Non ne avevo mai sentito parlare ma ora mi hai incuriosita. Offri sempre spunti originali nel tuo blog 😊

    1. Grazie Simona, il merito di questo post è di Silvano Calzini, grande appassionato di Londra.
      Ti seguo anch’io, in particolare su Instagram: le tue fotografie sono immediatamente riconoscibili. Keep up the good work!

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